Nato nel Castello di Signa, ha la fortuna di avere come nonno paterno (Adamo) uno scalpellino e come padre (Pietro) un ornatista e di aver avuto la possibilità di conoscere Egisto Ferroni e lo scultore Torello Santini.
Nel riflesso del nonno e del padre e nella luce di quei due artisti, Santelli crescea maturandosi quei meriti umani, morali ed estetici dei quali avrebbe in seguito definito “l’artista gentiluomo”.
Il giovane Giuseppe aveva ingegno e voglia per attingere alle fonti dell’arte maestra e presto, lavorando per cinque lire alla settimana in un magazzino di Firenze, oltre che della scuola del Santini, poté usufruire dell’Accademia fiorentina.
Conosce una maestrina benestante che divenuta sua moglie, mentre gli dava il contributo a comprare una casa e un pezzo di terra accanto alla dimora del padre Pietro, creava il nido dei propri figli; cinque, tutti maschi, e ai quali il padre artista dette tutti nomi di grandi artisti o di celebri umanisti: Arnolfo, Brunellesco, Donatello, Aldo, Tiziano.
È questo il tempo in cui Giuseppe si mette a scolpire e dipingere per conto suo, affinandosi così in quell’arte della quale, a sua volta, diverrà maestro, come del resto gli aveva vaticinato il suo maestro dell’Accademia Giovanni Fattori.
Superato il periodo della guerra la sua arte di cui, a volte allievo o maestro, collega o decano, attorno a lui, nel comprensorio signese, formò tutto un movimento il quale poteva dirsi come un piccolo nuovo Risorgimento. Pittori o scultori che, nella scia del già citato Ferroni, oppure nell’alveo del su esaltato Fattori, il quale non mancò di elogiarlo dai tempi dell’Accademia, vide, e nei viventi vede ancora, campeggiare artisti come Oreste Calzolari e il marchese d’Asnasch, Alimondo Ciampi e Torello Santini, Mario Moschi e Renato Bertelli, Bruno Catarzi e Lido Bagni, Alvaro Cartei e Aldo Rugi, Ugo Mori, Gino Paolo Gori e Ugo Fortini.
Un’arte infine che, col lapis e col pennino, con la matita o col bulino, con lo scalpello o col pennello, in lui fu feconda di centinaia e centinaia di opere d’arte, specialmente fra disegni e bozzetti, ma anche di somigliantissimi e bellissimi autoritratti e ritratti. Un’arte che, come già pei macchiaioli,amava ritrarre soprattutto un mondo naturale, sociale (e anche animale), fra i più onesti, sereni e buoni fra i suoi esemplari: dolci colline, vecchie stalle, ampie aie, scene familiari, umili contadini e scalpellini, cavalli, ciuchini, bovi, soprattutto bovi.
Un’arte che a mano a mano che il dolore entrava di più nella sua casa e nel suo cuore, si faceva sempre più fidente, sempre più religiosa anche nei soggetti dove non entrava la religione. L’arte insomma d’un patriarca che, anche dell’arte, fa una manifestazione patriarcale, cioè sana e salutare.
Implicitamente l’arte di un artista gentiluomo.